Nella notte di domenica 16 giugno nella zona SAR italiana di fronte a Roccella Ionica sono affogati in mare (“dispersi”) almeno 66 migranti, tra i quali 26 bambini, che arrivavano dall’Iran, dalla Siria e dal Pakistan. Gli 11 sopravvissuti raccontano che la nave imbarcava acqua ed era alla deriva da almeno tre giorni ma nessuno li aveva soccorsi. Hanno visto un bambino di 4 mesi scomparire in mare insieme alla mamma, mentre Nalina, la bambina di 10 anni ora in salvo, per giorni ha continuato a chiedere dei suoi genitori e soprattutto della sua sorellina anch’essa scomparsa.

Sul naufragio c’è stato un incredibile silenzio, i corpi recuperati sono stati portati a terra soprattutto di notte, lontano da telecamere e obiettivi per evitare l’effetto emotivo e le polemiche, nei telegiornali solo un accenno tra gli avvenimenti minori, le istituzioni nazionali e europee sono rimaste mute, e quando qualche ministro è stato incalzato dai giornalisti ha detto che si è trattato “un incidente ineluttabile” per chi si mette in mare. Tutto ciò mentre il numero di migranti che muoiono nel Mediterraneo non è cambiato, è invece cambiato l’atteggiamento della politica e delle persone, tutto avviene nell’indifferenza generale, anche di chi si dichiara credente.

Le agenzie dell’ONU contano 920 tra morti e dispersi nel Mediterraneo nei primi sei mesi dell’anno, 5 al giorno: la tragedia di Cutro in cui morirono 94 persone non è servita a nulla, anzi, come ha detto Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vicepresidente della CEI, ha generato il peggiore decreto riguardante l’immigrazione.

Continuano i naufragi mentre al G7 i “grandi della terra” hanno ritenuto opportuno ribadire la volontà di «prevenire e contrastare il traffico di migranti», nulla di nuovo rispetto alla “ricerca degli scafisti in tutto il globo terracqueo” annunciata dopo la tragedia di Cutro e finita nel nulla: per loro la vita delle persone è un tema secondario. In realtà non hanno il coraggio di ammettere la voglia considerare il mondo occidentale come una fortezza da difendere da assalitori, pur trattandosi soltanto di poveri, di disperati alla ricerca della sopravvivenza e spesso di mamme e bambini.

A nessuno di loro viene in mente l’ipotesi di rafforzare i soccorsi in mare: salvare le persone è un tema secondario. Lo sforzo sta tutto nel trovare formule linguistiche nuove per rendere normale l’orrore, considerarlo inevitabile e ogni volta che persone muoiono in mare le parole perdono senso, accendono meno sdegno, si cambia argomento. È la cosiddetta resilienza che auspicano i poteri: piegarsi narcotizzati di fronte agli eventi, allargando le braccia come massimo gesto di resistenza. Tutto si tace, spento come un corpo in fondo al mare.

Questa indifferenza è conseguenza dell’individualismo e porta al disastro disumano, alle ingiustizie: invece la salvezza, ogni salvezza si fonda sull’I CARE che significa “mi interessa, mi sta a cuore, mi lascio coinvolgere”.

Eppure due anni fa Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, nel suo intervento presso l’Università europea di Firenze diceva che l’I CARE è la roccia sicura su cui possiamo rifondare l’Europa, è l’unico modo per realizzare una convivenza in cui l’uomo non è solo e sono riconosciuti i diritti di tutti…. anche di chi mette a rischio la vita dell’intera famiglia per fuggire da guerre e miserie, la cui colpa è unicamente quella di essere nato nel posto sbagliato.