25 ANNI IN CAMMINO CON L’AFRICA

 BILANCIO E PROSPETTIVE

 

Suor Graziella Pinna – presidente SeAMi

 

Pace e bene! Col saluto di San Francesco desidero dare il benvenuto a tutti voi e ringraziarvi per la vostra partecipazione alla nostra gioia e alla nostra festa. Sono passati 25 anni (per l’esattezza 26 ma fratello Covid ci ha regalato un anno di più…) dal primo viaggio in Africa, di cui sicuramente ci parlerà tra poco suor Elisa. Questo viaggio ha segnato l’inizio di un’avventura. Nelle testimonianze che sentiremo più tardi, qualcuno parlerà di una svolta. Un colpo di fulmine che ha cambiato il corso della propria vita.

“25 anni in cammino con l’Africa. Bilancio e prospettive”: in questo titolo possiamo individuare tre dimensioni.

La prima dimensione ci porta alla celebrazione di un giubileo, i primi 25 anni di vita del SeAMi. Desideriamo vivere questo giubileo d’argento, come un momento di gioia e di festa, in cui secondo l’insegnamento di nostro padre San Francesco, restituiamo a Dio tutto il bene che è stato compiuto, per non correre il rischio di montare in superbia ed appropriarci di ciò che appartiene solo a Lui. Tutto è dono.

La seconda dimensione, è quella del bilancio, dell’analisi di quanto è stato fatto in questi anni e dei mezzi usati.

La terza è quella delle prospettive future. Siamo qui, non per compiacerci dei successi o sprofondare nella nostalgia dei “bei tempi andati”, ma per immaginare il futuro del SeAMi. Per questo, abbiamo chiesto l’aiuto di testimoni autorevoli, che con la loro parola, possono illuminarci ed aiutarci a rinnovarci nello spirito e nelle pratiche. E il primo testimone che vorrei chiamare è proprio suor Elisa, la fondatrice del SeAMi insieme ad altri, che ci aiuterà a ripercorrere la storia e le tappe principali di questa avventura.

Vorrei partire da due immagini. Una è quella che ben conoscete del logo del SeAMi: due persone stilizzate, una originaria del continente africano ed una europea, che tendono le mani fino ad incontrarsi per costruire un’appatam, una capanna tradizionale, luogo di incontro e di accoglienza. In questo semplice disegno è rappresentato il progetto iniziale del SeAMi, il sogno di un gruppo di giovani, alcuni oggi presenti in sala, che troviamo riassunto nella nostra Carta dei Valori: “L’Associazione costituisce una comunità allargata di cui fanno parte le suore missionarie, i volontari, gli adottanti, i bambini e tutti coloro con cui, in Africa, si stabiliscono rapporti. Opera spinta dall’amore per il prossimo, dalla consapevolezza critica delle ingiustizie che frenano il pieno sviluppo della personalità umana e dalla volontà di vivere e di testimoniare il Vangelo. Ha come finalità l’aiuto alla persona che soffre a causa della povertà, dell’oppressione e della discriminazione di razza, di religione, di etnia e di sesso. Favorisce lo sviluppo delle potenzialità degli individui. Particolare impegno è riservato all’istruzione a partire dalla scolarizzazione infantile, quale prioritario strumento di promozione della dignità. Promuove l’interculturalità”.

Personalmente, ciò che mi colpisce in questo testo, è il senso della corresponsabilità, per cui non c’è qualcuno che sta in alto a dare e qualcun altro più in basso a ricevere, ma tutti siamo allo stesso livello, tutti diamo e riceviamo reciprocamente. L’altro punto per me importante è stato individuare l’istruzione, a partire dalla scolarizzazione dei bambini, come missione particolare del SeAMi, il suo segno distintivo. Questo ha permesso all’Associazione, pur perseguendo anche altri progetti, di concentrarsi su un obiettivo e di non disperdere le risorse, che soprattutto negli ultimi anni, a causa delle crisi successive che ben conosciamo, sono diventate sempre più scarse. Ancora una volta, sentiremo nelle testimonianze i frutti di questo impegno. Ciò che emerge è la bellezza della diversità: sentiremo veterinari, infermieri, poliziotti, sarti, studenti in medicina, allevatori, sacerdoti, suore, mamme…

Per ragioni di tempo, abbiamo dovuto fare una scelta tra le numerose testimonianze arrivate, ma è bello sottolineare l’impegno e la passione che ciascuno di loro ha usato per raggiungere il proprio obiettivo. Anche, desidero sottolinearlo, grazie all’impegno delle nostre consorelle che consacrano tempo ed amore all’accompagnamento dei bambini/giovani e delle loro famiglie. 

La seconda immagine che vorrei proporvi è forse meno nota, anche se è ben conosciuto l’episodio del Vangelo che rappresenta. È un affresco del III secolo del Battistero della Domus Ecclesiae a Dura Europos (antica città della Mesopotamia, attuale Siria) che rappresenta la guarigione del paralitico a Cafarnao raccontata da S. Marco al capitolo 2, in cui quattro uomini, impediti dalla folla di raggiungere Gesù, calano un paralitico dall’alto, dopo aver scoperchiato il tetto della casa in cui si trovava il Signore.

<<Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati>>.

Da questo brano traiamo tre parole, tre indicazioni per noi:

-Amicizia: quattro amici si fanno carico di un paralitico, di qualcuno incapacitato a raggiungere il suo obiettivo da solo. Non è sempre così. Nel Vangelo il Signore opera guarigioni e miracoli anche senza mediatori ed aiutanti. Ma, in questo caso è stato necessario che gli amici prendessero l’iniziativa. Se riandiamo alle origini del SeAMi non c’è forse stato questo forte senso dell’amicizia? Un’amicizia bella che non si chiude in sé stessa ma è capace di aprirsi all’altro.

-Creatività: i quattro amici erano ben consapevoli degli ostacoli che dovevano superare per portare il malato a Gesù, ma non si lasciano fermare. Pur di raggiungere il loro scopo, cioè aiutare l’amico sono disposti a tutto, anche a scoperchiare una casa. Quanta creatività c’è stata all’origine del SeAMi? Oggi è cosa comune sentir parlare di adozioni a distanza, ma 25 anni fa poteva essere considerata un’innovazione. Oggi, siamo ancora creativi o ci accontentiamo di camminare per le vie conosciute? Ci facciamo interrogare dalle mutate condizioni politiche, sociali, culturali sia in Europa che in Africa? Abbiamo ancora orecchi attenti per sentire i bisogni e gli appelli o esportiamo risposte preconfezionate?

-Intercessione: Gesù è colpito dall’azione dei quattro, e vista la loro fede, guarisce il paralitico.  L’intercessione, quest’opera di mediazione in favore di qualcuno diverso da sé, è il contrario dell’egoismo, che sta alla base della cultura dello scarto di cui tanto ci parla Papa Francesco o dei più recenti “carichi residuali”. L’intercessione, come la carità, è sempre operativa, non si accontenta delle belle parole, ma si rimbocca le maniche e passa all’azione. L’amore non si dice, l’amore si fa.

Nell’affresco è ben chiaro il paralitico guarito, che obbedendo alla Parola del Signore, si carica sulle spalle il suo lettuccio e va per la sua strada. Lo scopo ultimo del SeAMi deve essere questo: aiutare l’altro a rimettersi in piedi e a farsi carico della sua vita. L’assistenzialismo non rientra nel DNA del SeAMi. Nelle testimonianze sentiremo l’orgoglio di chi, grazie al piccolo aiuto arrivato da parte di persone generose, è riuscito a superare un momento buio della propria vita, perché orfano da bambino o nato in condizioni disagiate, ed ora è in grado di prendersi cura di sé stesso e della propria famiglia. Questi bambini che hanno avuto la possibilità di andare a scuola (norma sancita dai diritti dei bambini, ma ancora lontana dall’essere pienamente attuata), col loro impegno hanno raggiunto risultati positivi ed ora sono risorse importanti per i loro rispettivi Paesi. Basti, come esempio, il caso del SEAMI Burkina, nato da giovani cresciuti e aiutati a distanza nel SeAMi, che in risposta all’aiuto ricevuto, hanno voluto a loro volta costituire un’associazione per aiutare i bambini più piccoli nel loro paese. Tra l’altro, proprio oggi a Koupela, in Burkina Faso, c’è stata una grande festa a cui sono stati invitati gli “anziani” del SeAMi e i ragazzi attualmente adottati.

L’aspetto che più ha colpito questi ragazzi è stato la consapevolezza di essere stati aiutati non da persone ricchissime, ma da persone normali che fedelmente, per anni, hanno economizzato sul loro stipendio per aiutare qualcuno lontano chilometri. Partendo da questa consapevolezza si sono detti: “Perché non fare lo stesso per i nostri fratelli?”. Il bene è diffusivo e contagioso.

Mi hanno molto colpito, nei mesi più duri del lockdown in Italia, le testimonianze e i messaggi di sostegno che abbiamo ricevuto dall’Africa. Tutte le lettere arrivate in quel periodo esprimevano la partecipazione al nostro dolore. In 25 anni si sono create relazioni familiari ed amicali.  Il 20 novembre di ogni anno, oggi, è la Giornata Mondiale dei Diritti dei Bambini.

Conflitti, povertà, fame e crisi climatica minacciano la vita di milioni di bambine e bambini. Nel mondo, più di 400 milioni di bambine e bambini vivono in aree di conflitto, tra i 10 e i 16 milioni di minori rischiano di non poter tornare a scuola perché costretti a lavorare o a sposarsi, mentre ogni anno più di 22.000 bambine e ragazze muoiono durante gravidanze e parti che sono il risultato di matrimoni precoci. In tutto il mondo quasi un bambino su tre, circa 663 milioni, vive in povertà, più di 1 miliardo di bambini vive in aree ad alto rischio di minacce climatiche e si stima che 710 milioni di minori vivano nei 45 paesi a più alto rischio climatico.

Davanti a questi numeri, sentiamo tutta la piccolezza della nostra azione e che tanto resta da fare.

Come SeAMi vogliamo continuare a dare il nostro piccolo contributo al miglioramento delle condizioni dei bambini. Ma ci chiediamo quale sia oggi il modo migliore per farlo. La festa odierna è un’occasione favorevole, un tempo di grazia, per sognare ancora, per progettare e realizzare forme nuove, custodendo la dimensione profetica delle origini.

Il sostegno a distanza è una responsabilità “a lungo termine”, che dura nel tempo. È un investimento sul futuro. Talvolta è più semplice intenerirsi davanti alla foto di un bambino piccolo, piuttosto che un ragazzo/una ragazza più grande, un papà che ha perso il lavoro e non può più sovvenire ai bisogni della sua famiglia. Talvolta, devo rispondere alle richieste di alcune persone che vorrebbero scambiare il loro figliolo, che magari sta per concludere il liceo e sogna di iscriversi all’università, con qualcuno più piccolo, un “cucciolo”. Anche se i bambini restano il nostro pensiero principale, cerchiamo di portare avanti altri progetti, come il sostegno ai carcerati, che vivono spesso in condizioni disumane, il progetto sanità, il microcredito.

Per i nostri 25 anni, abbiamo voluto rileggere alcuni dati, che troverete riassunti nei pannelli sul fondo. Ce n’è uno che dice cos’è il SeAMi: in 25 anni sono stati raccolti circa 6 milioni di euro. Di questi, circa il 98% è arrivato in Africa. La piccola percentuale residua è costituita dalle spese di gestione dell’Associazione, che si riducono ai costi per la pubblicazione del nostro giornalino e per la spedizione delle lettere agli adottanti. Per il resto, il SeAMi vive interamente della gratuità dei suoi membri, che mettono a disposizione tempo, risorse e competenze. La riforma del Terzo Settore impone rigorosità nella gestione e nella contabilità, ma fin dall’inizio questo è stato uno dei capisaldi dell’Associazione, di cui andare giustamente fieri. Ho constatato la stessa rigorosità in Africa da parte delle nostre suore, chiamate a gestire i soldi arrivati dall’Italia e da altri paesi in libretti di risparmio personali per ogni bambino.

Prima di concludere, permettetemi un ringraziamento particolare alle Suore di San Francesco d’Assisi, che a diverso titolo si sono spese in favore del SeAMi. Ringrazio la nostra Superiora generale, suor Corinne, di cui vi trasmetto i saluti e il messaggio: “Possiate vivere un bell’incontro di condivisione e sostegno nell’impegno in favore dei bambini in Africa. La missione possa iscriversi sempre nella prospettiva dell’edificazione della giustizia e della fraternità. In comunione fraterna, sr Corinne Tallet

In questi anni abbiamo cercare di adeguarci ai cambiamenti, ma credo che ciò a cui non possiamo rinunciare, oggi più di ieri, è l’opera di sensibilizzazione ai problemi e alle ricchezze dell’Africa. Eventi come questa serata, con la partecipazione degli amici che ci hanno raggiunto, rientrano pienamente nella nostra missione. Siamo qui oggi per ricordare, innanzitutto a noi stessi e poi agli altri, i valori in cui crediamo: l’amore come fonte di giustizia, il riconoscimento dell’altro come fratello, l’impegno per i diritti dell’uomo, il confronto di culture, la testimonianza, la gratuità, l’azione concreta e responsabile.

Allora, come diceva San Francesco ai suoi frati alla fine della sua vita: “Cominciamo, fratelli, a servire il Signore Iddio, perché finora abbiamo fatto poco o nessun profitto!” (FF500)

              

 

Suor Elisa Carta – fondatrice SeAMi

Mi commuove vedere tanti volti che mi sono stati familiari per tanti anni, con i quali ho condiviso delle esperienze bellissime.

Voglio dirvi come è nato il Seami e inizio con un riferimento personale perché non avrei mai pensato di creare un’Associazione.

Cosa è successo. Sono stata per diversi anni in Africa, ho lavorato tanto, in condizioni molto dure e in povertà, inoltre facevo la malaria ogni tre mesi. Vedendomi sfinita, le superiori mi hanno curato, mi hanno fatto riposare e infine mi hanno dato un altro lavoro in Italia….ho lasciato l’Africa.

Guarivo dalla malaria ma avevo preso un virus che nessuno poteva debellare: il “mal d’Africa”. I miei sogni erano popolati dai bambini che avevo lasciato, dai villaggi in cui vivevo, dalle mie consorelle e da tutto quello che c’era stato nella mia vita per tanti anni.

Don Gennaro Antonini, allora parroco di santa Paola Romana, mi chiese di venire in parrocchia per fare un gruppo missionario: le offerte raccolte si sarebbero mandate in Africa. Ma gli dissi che non si trattava di inviare soldi: “Voglio portare in Africa i ragazzi del quartiere”.

Con la complicità di don Ugo Quinzi, allora viceparroco, si è lanciata questa iniziativa coinvolgendo i molti giovani che frequentavano la Parrocchia, e durante un campo scuola a Leonessa don Ugo Quinzi propose ai ragazzi un viaggio in Africa. Tutti furono entusiasti, così iniziò l’anno di preparazione spirituale e di conoscenza dell’Africa: era nata l’operazione “Gomena”.

Dopo un  ritiro a Fonte Colombo, il 20 agosto 1996 siamo partiti in 24. La frase “Raccogli questa gomena che lancio” del poema di Marco Garzonio,  è stata presa come parola d’invio.

La “gomena” è stata raccolta dall’altra riva, fino a formare un ponte che ha messo in comunicazione due popoli, due culture, due chiese, rendendosi reciprocamente disponibili al Dio della vita e dell’amore che stringe a sé, in un unico abbraccio, moltitudini di fratelli, veramente fratelli tutti.

E’ stata una bellissima esperienza umana e spirituale, ha determinato una trasformazione radicale per chi ha ricevuto ma soprattutto per noi: questa esperienza ci ha arricchito. Il Signore nei suoi progetti ci sorprende sempre e non ha mancato di farlo al nostro ritorno.

Al ritiro di verifica sempre a Fonte Colombo si manifestò la Sua volontà in modo chiaro e definitivo: i ragazzi chiesero di continuare l’impegno missionario e umanitario per venire in aiuto alle persone incontrate, specialmente bambini e giovani. Nacque così il SeAMi e suo logo rappresenta la casa comune che il nostro Dio ha regalato all’umanità affinché in essa tutti possiamo vivere da fratelli.

Questa è la radice del SeAMi: la volontà di ragazzi che non potevano restare con “le mani in mano” e sentivano il dovere di fare qualcosa per i loro fratelli.

Sono gli anni del grande entusiasmo per l’organizzazione dell’Associazione, la redazione dello Statuto, il riconoscimento come ONLUS, la preparazione del nostro giornale.

Nacquero tanti progetti e si fecero tanti viaggi, ogni ragazzo che partiva per la prima volta tornava cambiato. Durante questi 25 anni Dio ci ha preso per mano.

Fanno parte del SeAMi tante storie di ragazzi africani, spesso orfani,  che, completato gli studi e la formazione professionale, occupano oggi posti di responsabilità nel loro paese, storie di seminaristi diventati sacerdoti che lavorano e pregano nelle loro Diocesi, storie di ammalati curati con amore e tenerezza, storie di detenuti restituiti alla loro dignità di persone, spesso sfamati di pane ma soprattutto di rispetto e di considerazione.

Dopo 25 anni di questa storia di amore continua grazie a Dio.

Auguro al SeAMi lunga vita, illuminati dall’amore di Dio per ogni sua creatura.

  

   Filomeno Lopes – giornalista Radio Vaticana

Non bisogna guardare soltanto ciò che fu, bisogna anche reagire alle provocazioni che possono venire perché come si dice da me “ogni anziano è il tuo ieri ed è parente del tuo domani”, se dietro c’è la spalla, davanti c’è il mio petto. E guardando questo domani la riflessione porta a un concetto molto semplice: l’africano a chilometro zero diventa problematico per gli italiani, ed è difficile capire perché è un problema. Nessun africano ha partecipato al disegno dell’Africa come la vediamo nelle carte geografiche e se io volessi sapere cos’è l’Africa dovrei chiederlo a chi ha fatto la mappa nel 1884-1885. E’ strana questa cosa. Qualche tempo fa tutti i telegiornali hanno aperto con il titolo “il 48% dei cattolici è con Salvini, il Papa è in minoranza”: non ci ho più visto, ho cercato di capire da dove potrebbe arrivare questa ferocia e questo rigetto di gente che è anche cristiana e cattolica. Andando in giro per le Parrocchie per rendermene conto ho visto persone che durante l’omelia uscivano dalla chiesa per fumare ma soprattutto per non sentire il sacerdote che avrebbe detto loro di aprirsi ai migranti. Ho scritto ai vescovi italiani e africani  una lettera aperta sul tema dell’immigrazione, ho aperto il cuore non per protestare ma per sottolineare che, su questo tema, laici italiani, europei e africani devono avere più occasioni di incontrarsi, chiarire quali sono le ragioni per cui chi dice di essere cristiano e cattolico rifiuta di aiutare il suo prossimo. Nella terra del Sahel da cui provengo i jihadisti arrivano e minacciano la gente che se entro una settimana non si è cambiata religione torneranno per fare razzie. Allora molte famiglie che non cambiano religione organizzano i figli per mandarli in Italia perchè per loro l’Italia è il centro del cattolicesimo e sicuramente darà loro ospitalità. Ma nella loro innocenza non sanno che nel Parlamento italiano i primi a votare contro gli immigrati sono proprio i cattolici! Senza giudicare questa situazione, forse dobbiamo cercare di capire perché qui la gente non ha la percezione di come noi teniamo in considerazione il cattolico italiano: per noi in ambito cattolico se qualcosa viene detto da un italiano ha una grande valenza perché è vicino al Papa e la gente tutte le domeniche va alla Messa senza sapere se uscirà viva, e prega per il Papa, per la chiesa. Da qui il mio imbarazzo nel riportare tutti i giorni, come giornalista, quello dicono alcuni politici italiani sui migranti. E’ necessario parlarne perché c’è un problema molto serio ed è un problema culturale, di conoscenza. Oggi ci aspettiamo dai nostri relatori  di aiutarci a fare questo salto culturale.

 

S. E. Cardinale Franco Montenegro

Sono don Franco, sono stato ad Agrigento, ho fatto l’ausiliare a Messina come direttore di Caritas, sono venuto a Roma come vescovo e sono stato presidente di Caritas per due mandati e presidente di Migrantes, poi, nel 2008, sono stato mandato ad Agrigento per 13 anni, oggi sono di nuovo a Roma.

La mia esperienza è stata sempre nel mondo della carità, per colpa di mia madre che da piccolo, a venti giorni, mi portò ad una riunione di San Vincenzo e mi ha sempre detto che avrei dovuto interessarmi dei poveri. Sono cresciuto e la Provvidenza ha voluto che lavorassi sempre per i poveri, anche se non mi è stato concesso quello che ho sempre richiesto: di lavorare con loro. Perché “lavorare per” deve essere facile, “lavorare con” diventa più impegnativo.

Tra le mie esperienze c’è quella di Lampedusa in quanto vescovo di Agrigento. In Africa ci sono stato una volta, precisamente in Tanzania, dove c’era una missione, non ho quindi una forte esperienza di Africa, quella volta che sono andato sono tornato anch’io con un po’ di “mal d’Africa”, però non l’ho potuto realizzare.

La mia idea è che la Chiesa, se vuole essere Chiesa, deve avere una finestra aperta, deve guardare lontano, non chiudersi e “star bene tra di noi”. E’ forse per questo che mi spiego la mia presenza qui.

Lampedusa è in mezzo al mare, dopo le mareggiate si vede tra la sabbia un insieme di “rifiuti” portati dal mare: Lampedusa che raccoglie tanti migranti è come quella spiaggia e raccoglie quello che parte dall’Africa, e partono disagi, disperazione, paure, speranze. Arrivano in Lampedusa che è una piccola isola, però secondo me è un laboratorio del mondo nuovo, perché quelle speranze e quelle disperazioni, nella Provvidenza di Dio, possono essere elaborate e da loro può partire un messaggio che dice “povertà e accoglienza vanno d’accordo”(sono parole di papa Francesco). Il mondo nuovo di certo non sarà quello dei muri, o dei respingimenti, sarà il mondo dell’accoglienza, quell’accoglienza che si sta sperimentando in questo piccolo laboratorio.

Il nome di Lampedusa è contraddittorio: in latino vuol dire “faro”, in greco “scoglio”, è faro per molti che riescono ad arrivarci e per loro

comincia ad accendersi la speranza, è scoglio per chi viene inghiottito dal mare, sono più di 60.000 i morti nel Mediterraneo.      

Questa isola credo parli al mondo d’oggi per far conoscere quale potrebbe essere un mondo possibile: a Pasqua del 2011 fu invasa da 10.000 africani, il doppio dei suoi abitanti che comunque riuscirono ad accogliere tutti. Nella veglia pasquale lessi la storia dell’isola: la salvezza, il faraone, le multinazionali, l’occidente, la gente che vuol partire, il Mediterraneo, il Mar Rosso, la terra promessa, il deserto luogo di speranze, di paure e di tradimenti. Poi papa Francesco che è il Mosé, perché è venuto a dirci che una terra promessa c’è, e ci ha indicato da che parte andare. Io dico che se il buon Dio volesse scrivere la seconda edizione della Bibbia non metterebbe il nome del Faraone, di Mosé, ma metterebbe il nostro nome perché è la stessa storia, rinnovata, ma con una conclusione diversa: purtroppo, e qui noi credenti entriamo in ballo, se volesse scriverla si troverebbe un po’ in difficoltà perché tra poco è Natale e Gesù non ha ancora trovato un posto dove nascere:  Gesù del presepe ha avuto la fortuna di avere una mangiatoia, un bue e un asinello, dice la tradizione, i Gesù bambini di oggi muoiono per il freddo, sul barcone non hanno né il bue né l’asinello, e Maria e Giuseppe devono gettarlo al mare.  E’ una storia che purtroppo non riusciamo a cambiare e quando gli africani sbarcano qui, sbarcano dove c’è tanto egoismo, tanta paura e non c’è accoglienza. Uno di loro disse che era cristiano in un paese di mussulmani e, ricercato dalla polizia, fuggì in Italia pensando di poter respirare aria diversa in mezzo a cristiani: ma arrivato in Italia si è ritrovato da solo, come quando era nel suo villaggio.

A voi del SeAMi, con la vostra esperienza, mi permetto di dire che bisogna lavorare per l’Africa ed è importante la nostra presenza lì, ma diamoci da fare anche qui perché i problemi più grossi sono qui, è gente che nessuno vuole. Le nostre bugie sono grosse come le montagne, noi non ci diciamo razzisti eppure non posso dimenticare quando entrai al bar per chiedere un caffè ed entrò anche un immigrato: a me il caffè lo diedero in una tazzina di porcellana, a lui in un bicchiere di carta. Sarà stato un caso?

Da direttore Caritas stavamo facendo lavorare un ragazzo della Costa d’Avorio e cercammo una stanza per lui. Sul giornale trovammo un “affittasi a studenti” ma quando lo videro dissero che la stanza l’avevano già affittata. Dopo qualche ora, senza farmi riconoscere telefonai,  e mi dissero che la stanza era ancora disponibile. Però non siamo razzisti.  Non facciamo quel razzismo da Curva Sud, ma nei fatti quella che noi chiamiamo integrazione è soltanto tolleranza e a loro diciamo “io ti aiuto ma comportati come vogliamo noi altrimenti torni indietro”. Ma una mentalità così non cambierà mai il mondo perché l’integrazione non è “tu diventa come me”, l’integrazione è “tu ed io vediamo cosa abbiamo in comune e insieme cerchiamo di costruire il futuro”.

Ma una mentalità così non cambierà il mondo, fino a quando non li consideriamo “uomini” e restano una categoria “i migranti”, la loro storia non cambierà la nostra, ed è inutile che io mi interesso dell’Africa se quando l’Africa bussa alla mia porta non sono capace di aprirla. Come cristiani ci stiamo trovando in grossa difficoltà: “Là dove non c’è giustizia non ci può essere Eucarestia” ha detto il teologo Gustavo Gutierrez, e noi continuiamo a celebrare l’Eucarestia ma i poveri devono restarsene fuori sebbene quel Gesù nel quale crediamo è un Gesù povero, è un Gesù migrante. Se oggi Gesù dovesse tornare forse tornerebbe in un barcone, non troverebbe il bue e l’asinello, rischierebbe di finire in mare.

Il discorso dell’Africa deve prenderci totalmente, il “mal d’Africa” dobbiamo farcelo venire, soprattutto adesso che l’Africa l’abbiamo sotto casa. Se vengono due africani dalla Nigeria vengono trattati diversamente, quello  che vende orologi lungo la strada dà fastidio, quello che gioca a calcio ed è bravo viene pagato perché resti: tutti e due vengono dalla stessa terra. Non mi pongo il problema se lui è nero come l’altro, e perché sono diversi. Allora probabilmente l’Africa non la voglio perché è come uno specchio,  guardo loro e mi vedo riflesso: vedo il mio egoismo, il mio modo di pensare. Noi siamo buoni, siamo civili, abbiamo inventato il diritto romano, abbiamo fatto la rivoluzione francese, ma abbiamo delle responsabilità in quanto cristiani, c’è solo il Papa che parla di migranti. Tocca a noi mettere insieme vita e liturgia.

Mi permetto di dirvi continuate a ragionare d’Africa, ma incominciate a pensare a un’Africa “qui “perchè la storia sta cambiando, sta cambiando la società, la religione. Guardate indietro perché è importante, ma l’amore guarda sempre avanti, al futuro, che è già cominciato: dall’Africa, dall’America Latina stanno venendo da noi, e allora questa storia di noi in Africa come può continuare stando qui a Roma o nella nostra città? In che modo quello che noi portiamo loro può essere trasformato in accoglienza e condivisione? E’ necessario, altrimenti diventa il nostro peccato. La pandemia è stata provvidenziale: mettere Gesù nella mano ci ha costretto a fare il gesto del povero, e ho bisogno di guardare quella mano per capire cosa significa la mano di quel “Gesù” messo fuori. Allora

non possiamo dire ci vediamo in Africa, ora l’appuntamento è lui a darcelo qui ed è qui che dobbiamo rispondere.

                           

 

Luca Attanasio – giornalista e scrittore

Sono molto contento di stare con voi in atteggiamento umile e di ascolto. Devo dire subito che questa sera mi trovo in sintonia e lo dico con vera felicità perché di questi tempi sentirsi in sintonia non è affatto facile: è stato citato il termine “carichi residuali” ma non è solo un problema politico, è anche, e soprattutto, culturale, di scarsa conoscenza della realtà dell’Africa.

L’analisi della ricerca sulla presenza dell’Africa nei media italiani, svolta nel periodo 1 marzo 2021 – 28 febbraio 2022, si divide in tre aree. La prima riguarda le prime pagine dei principali quotidiani (Avvenire, Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, Il Giornale, La Repubblica, La Stampa) e conferma un interesse marginale per l’Africa.

La media mensile di notizie è pari a 16, un numero ancora decisamente basso che rivela, inoltre, una tendenza sempre molto italocentrica: il 67,6 per cento di queste 16 notizie fanno parte della categoria che Amref chiama “Africa qui” e solo il 32,4 per cento da “Africa là” (quasi solo Libia, Egitto per Zaki e Regeni, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo per l’omicidio del mio omonimo ambasciatore).

Va ancora peggio nei principali telegiornali. Su più di 44.000 notizie analizzate solo 1.522 (3,4 %) hanno riguardato direttamente o indirettamente l’Africa. Il silenzio sull’Africa nei Telegiornali è quasi assoluto e quando viene rotto, è spesso a causa di notizie di colore, curiosità che ancora riportano a un immaginario banalizzante, arcaico e folkloristico del continente.

La terza area indagata riguarda i programmi di informazione e infotainment e ha utilizzato un campione di 90 trasmissioni in onda sulle sette reti generaliste a diffusione nazionale. Su 61.320 ore trasmesse in un anno dalle sette reti monitorate, sono stati rilevati solo 967 riferimenti all’Africa, in media uno ogni 63 ore di programmazione.

La fotografia che l’Italia scatta sull’Africa, quindi, è piena di imperfezioni. La scarsissima presenza nei media e l’assenza quasi totale nei dibattiti, causano un pericoloso provincialismo, brodo culturale ideale in cui far proliferare ignoranza e razzismo da una parte, e incapacità di cogliere opportunità di relazioni dall’altra. Come ripete l’Amref «le diversità evidenti tra i paesi africani, in termini geografici, storici, culturali, linguistici, climatici, politici, sociali sono appiattite da un racconto sull’Africa che tramanda il mito - inesistente - dell’omogeneità africana».

In Italia, a differenza di altri paesi europei, di Africa non sappiamo nulla, o meglio si fa in modo che non se ne sappia nulla. Questo porta ad avere un’idea dell’Africa completamente falsata e fondata su “ignoranza” quasi totale e uno dei primi gravissimi problemi che questa ignoranza causa sono le mitologie sulle migrazioni. Un tema sempre molto attuale ma al tempo stesso maltrattato a seconda dei consensi.

Un classico esempio è l’insistenza su presunte migrazioni di massa, se non invasioni, di africani verso il nostro paese.

La realtà statistica dice che le migrazioni africane sono oltre l’80% all’interno dell’Africa, un buon 10-12% verso i paesi del golfo  e il restante meno del 10% viene in Europa. Quindi soltanto una piccola parte del 10% di emigranti africani viene in Italia. Ma come viene? Chi vuole venire in Europa ha un solo modo: i trafficanti. Ecco perché succede quello che vediamo nei telegiornali o leggiamo sui giornali e si fa infinita retorica  per gli sbarchi a Lampedusa o per chi arriva via terra dai confini orientali dove si perpetuano da molti anni violenze, torture su migranti, anche minorenni, da parte di polizie europee, documentato peraltro dal quotidiano “Avvenire”.

 Il vero problema è che verso l’Italia o l’Unione Europea, non esiste ormai de facto la possibilità di ingressi legali dall’Africa e dai Paesi meno sviluppati. Lo scorso anno, per la prima volta in undici anni, sono stati ammessi nuovi ingressi legali per lavoratori extra Unione Europea, ma il numero (20.000 ) è di gran lunga più basso rispetto ai 200.000 che coprirebbero il fabbisogno effettivo di manodopera e di cui le nostre aziende, non quindi le ONG o gli enti benefici, avrebbero disperata necessità.

A tutto questo si aggiunge un danno drammatico procurato in primis a decine di migliaia di persone che sono costrette a rivolgersi ai trafficanti per tentare l’approdo alla fortezza Europa (sempre più arroccata nei suoi 1.000 km di muri eretti in funzione antimigranti, 16 solo negli ultimi anni, per la cui costruzione 12 Stati membri su 27 hanno addirittura chiesto finanziamenti comunitari). Con alta probabilità incontreranno la morte: si calcola

che negli ultimi otto anni sono decedute 25.000 persone durante le traversate del Mediterraneo e dell’Egeo, senza contare i tantissimi morti prima di arrivare sulle coste. Con assoluta certezza, invece, subiranno torture, violenze, stupri durante il viaggio. Ma in secondo luogo il danno si ripercuote gravemente sulla comunità internazionale costretta a fare i conti con il traffico di esseri umani, mai in crisi neanche durante il Covid, e le conseguenti instabilità geopolitiche oltre al foraggiamento dei terrorismi.

L’Unione Europea e l’Italia sono letteralmente impazzite e per qualsiasi governo si alterni nel nostro paese la vulgata è che siamo invasi e che bisogna correre ai ripari. E i ripari sono i centri di detenzione della Libia e della Turchia, le violenze brutali perpetrate su disperati, molti dei quali bambini, ai confini Croazia/Bosnia, Bielorussia/Polonia ed anche Francia e Italia,  le polizie degli stati membri impegnate a picchiare e respingere in nome della difesa dei confini (muri). Ciò induce decine di migliaia di persone al ‘Viaggio’.

Secondo il dossier statistico lo scorso anno in Italia ci sono stati 67.000 ingressi irregolari, 200mila in tutta l’Ue, sicuramente non pochi, ma neanche tali da suscitare una tale chiamata alle armi. Tanto più che in realtà, se si guarda a quanto successo all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, si scopre che un altro metodo è possibile. Il 4 marzo 2022, infatti, l’Unione Europea ha implementato per la prima volta dalla sua approvazione la Direttiva 2001/55/CE,  la misura che garantisce a chi fugge da situazioni estreme una protezione temporanea senza bisogno di visto di ingresso, un titolo di soggiorno di un anno rinnovabile per il secondo, la possibilità di ottenere un’abitazione e un lavoro, l’accesso ai servizi del cittadino. L’immediato innesco di questa strategia sacrosanta, nel giro di otto mesi, ha permesso a circa 7,5 milioni di ucraini, bianchi e cristiani, di entrare legalmente nella Unione Europea, senza doversi neanche lontanamente accostare ai trafficanti, di scegliere il Paese di destinazione e circolare liberamente in qualsiasi Stato membro. E non è successo nulla, non si sono rovinati gli equilibri, l’accoglienza è stata accettabile, sono stati distribuiti in tutti i paesi, con picchi in Polonia e Ungheria. L’accesso legale permette tra l’altro di individuare eventuali terroristi presenti tra loro.

L’ingresso legale è chiesto dall’economia, per quest’anno le aziende italiane hanno chiesto 200.000 persone e ne sono arrivate legalmente soltanto 20.000: gli ingressi legali sono necessari, il razzismo è idiozia.

Il problema è che in questa storia ci sono decine di migliaia di morti, ogni migrante arrivato vivo ha visto almeno una persona morire prima di arrivare alle coste. Poi non è possibile contare i morti nel deserto, nelle prigioni della Libia, del Ciad, del Sudan, solo Dio sa quanti hanno perso la vita durante il “viaggio”. A questo proposito nel mio libro “Il bagaglio” dedicato ai minori stranieri non accompagnati, ho chiesto a 60 ragazzi arrivati da noi da minori di raccontare il loro “viaggio”, iniziato per alcuni all’età di 14 anni, fatto con i trafficanti, rimanendo loro schiavi per anni, pagando fino a 15.000 dollari, indebitando la propria famiglia per decenni. Sono veri “eroi” e ho avuto l’onore  di sentire dalla loro voce quello che hanno vissuto mettendomi al loro stesso livello.

Nel dibattito italiano manca la voce di queste persone,  delle persone che hanno affrontato il “viaggio”: rimangono sempre marginali e invece hanno molto da dire.

Voi del SeAMi continuate le cose che fate, con lo spirito con cui le fate, “alla pari”, con rispetto profondo della dignità di chi hai davanti, con parole e sguardo, perchè anche uno sguardo può umiliare: il vostro è un grande patrimonio, si respira un senso di innamoramento

Oggi è anche molto importante favorire una nuova cultura dell’Africa, favorire una conoscenza dell’Africa, la curiosità umana dell’Africa che non è solo guerra, carestie, ma è un continente che ha il 65% delle risorse naturali mondiali, ha una propria cultura ed è la culla dell’umanità.

Non guardiamo gli africani che vengono qui solo come vittime, come poveretti, guardiamoli come protagonisti, eroi dei nostri tempi per cambiare la prospettiva e fare la differenza nel mondo. 

 

Teresa Albano – project manager OSCE (Organizzaione Europea per la Sicurezza e la Cooperazione)

 

Il mio incontro con l’Africa è avvenuto quando sono arrivata in Nigeria da europea isterica, con la logica del fare che non funzionava in quel contesto. Nel villaggio in cui lavoravo mi sono accorta che i trafficanti di donne rassicuravano le loro clienti che in Italia nessuno le avrebbe mai sfruttate sessualmente perché l’Italia è il paese del Papa: in realtà nel villaggio la gran parte delle giovani veniva reclutata e portata in Italia proprio per essere sfruttata sui marciapiedi italiani. Ho smesso di fare questo lavoro perché, dopo essere stata in contatto con tante vite distrutte e maltrattate, non ce la facevo più. Poi ho conosciuto l’Africa nei Centri di Detenzione per migranti della Libia e del Marocco e sono arrivata a considerare nostri grandi “benefattori” le persone che vendono i passaporti contraffatti per fuggire da questi paesi: una legge che non consente di spostarsi legalmente è una legge che provoca e crea il fenomeno della migrazione illegale.

Vi racconto la storia del mio amico Yasel, marocchino che negli anni ’80, quando non c’era ancora la legge sull’immigrazione, decise di emigrare in Italia, semplicemente per cercare lavoro e, con il solo visto, potè prendere l’areo e arrivare a Roma. Non trovando lavoro dopo tre mesi tornò in Marocco, ma aveva capito che era necessario parlare l’italiano: si mise a studiare e prese di nuovo l’aereo per Roma. Ma “che ci sto a fare in Italia senza lavoro” quindi tornò nuovamente in Marocco con un’idea precisa: fare il cuoco. Si mise a studiare la cucina italiana e tornato a Roma per la terza volta, sempre con i suoi soldi, iniziò finalmente a lavorare in un ristorante. Oggi ha un suo ristorante al Pantheon è dà lavoro a marocchini e a italiani. E’ la storia che racconto ai Governi dell’Unione Europea

La situazione attuale è che quando busso alla porta dei 57 diplomatici e mi presento “Buongiorno, sono l’esperta di Migration Governance dell’OSCE” la reazione è di non farmi andare oltre e mettermi alla porta: non c’è nessuna intenzione di affrontare in modo risolutivo la gestione delle migrazioni.

Eppure se oggi cancellassimo tutte le barriere ed entrassero tutti gli emigranti, saremmo in grado tranquillamente di assorbirli, ma non solo, ne abbiamo veramente bisogno, e non lo dico perché sono “buonista”, ma perché mi occupo di economia e nel mandato della Organizzazione in cui lavoro, che riflette quello che ci dicono tonnellate di ricerche economiche, la migrazione, ben regolamentata, è considerato un fattore della produzione e la Convenzione per l’Organizzazione Internazionale del Commercio ritiene fondamentale la libera circolazione dei fattori di produzione.

Quindi la mobilità del lavoro è essenziale se vogliamo continuare a crescere economicamente.

Purtroppo soltanto la Germania ha chiara questa situazione: a Berlino il Ministro del Lavoro ha detto: <<Volete la Mercedes? volete continuare ad avere il vostro livello di vita? Abbiamo bisogno di 5 milioni di persone nei prossimi 5 anni>>. Sono pronti, li stanno prendendo. Nei Balcani la gente fa la fila davanti all’Ambasciata tedesca, imparano il tedesco e vanno in Germania.

I sindaci tedeschi sono orgogliosi del fatto che la gente voglia andare da loro perché è segno che hanno fatto un buon lavoro.

Il vero “buon lavoro” è quello in cui le opportunità vengono gestite in maniera efficace per tutti: i tedeschi non sono più intelligenti di noi, semplicemente gestiscono la cosa pubblica in maniera più trasparente e più efficiente.

Gandhi diceva: <<C’è posto per tutti nel mondo, non c’è posto per l’avidità di tutti, per la corruzione>>.

Il problema è l’assenza di politiche attive per il lavoro e per l’immigrazione. L’Austria, dove vivo da 10 anni, non è un paese progressista, c’è un Governo conservatore ma sono tutti contenti che la popolazione per la prima volta non è più in calo e, grazie al milione di immigrati che vengono integrati alla velocità della luce, è passata da 8 a 9 milioni di abitanti.

Dal punto di vista demografico l’Europa è in declino: abbiamo bisogno di persone che vengono a studiare, a lavorare, a vivere  e costruire insieme a noi la prosperità comune.

Abbiamo bisogno di partner non di vittime, e per avere partner dobbiamo aprire le frontiere e consentire di entrare legalmente.

La Germania ha modificato la propria legge sull’immigrazione, noi invece no!

Il nostro è un paese in cui si ha paura del nero accanto a noi, ma la paura l’abbiamo creata noi, noi creiamo divisione.

  

Sto completando un progetto con 6 paesi, tra cui l’Italia, per costruire narrazioni alternative sull’immigrazione, perché la narrazione della paura è quella che ci divide. Dareste lavoro a una persona che viene correntemente descritta e dipinta come terrorista, predatore?

Il progetto si chiama E-MINDFUL, ha la finalità di creare un ambiente in cui tutti si sentano apprezzati, vi invito tutti a seguirlo (www.osce.org/it/oceea/505414).

A Vienna in un incontro presso l’Istituto Italiano di Cultura ho invitato Enaiatollah Akbari, la cui storia è raccontata nel libro di Fabio Geda “Nel mare ci sono i coccodrilli” per fare cultura sull’immigrazione facendo parlare i diretti protagonisti: all’età di 9 anni Enaiatollah viene abbandonato in Pakistan e, dopo un viaggio durato 9 anni, arriva in Italia, viene adottato da una famiglia italiana e inizia gli studi. E’ stata una giornata di riflessione: noi italiani ci sentiamo l’ombelico del mondo in uno scenario di scarsa conoscenza e poca familiarità con tutto ciò che è diverso dal nostro “tortellino”: eppure siamo un paese di migranti, siamo sempre partiti, noi per primi abbiamo sempre gettato il cuore oltre l’ostacolo. Siamo noi un popolo di migranti: come è possibile che non riusciamo ad accogliere chi vorrebbe fare quello che abbiamo fatto e continuiamo a fare anche noi?

Basta con le migrazioni forzate, apriamo i confini per una migrazione legale: le aspirazioni, le ambizioni fanno parte del cuore umano, il desiderio di migliorarsi, e non semplicemente la fuga dalla povertà, è un diritto di tutti.

Solo noi ci riteniamo cittadini globali e a chi vorrebbe diventarlo stiamo facendo pagare una tassa imponendo lo sfruttamento, la violenza, la detenzione.

Vivo il paradosso della normativa internazionale che va in una direzione e le prassi che vanno in un’altra: è un lavoro ad alto livello di frustrazione, però quando vengo in riunioni di questo genere ritrovo le ragioni del mio lavoro, perciò sono io a ringraziare voi per farmi ricordare il perché ogni mattina mi sveglio, busso alla porta di quell’ambasciatore ma stavolta non dico più “sono l’esperta di Migration Governance” ma dico “Sono l’esperta di Sviluppo del capitale umano nell’era digitale”, poi, faccio i complimenti per la sua conoscenza della lingua inglese e quando mi dice dove l’ha imparata osservo che anche lui si è spostato, con la sua famiglia, ma non pronuncio mai le parole migrante, rifugiato, uso molta tattica per non essere più messa alla porta e fare in modo che mi ascoltino.

C’è bisogno di parlare di Africa e voi del SeAMi che la conoscete nella sua autenticità avete una cara in più.

C’è bisogno di diventare madri e padri di minori non accompagnati che sono qui.

Ringrazio Luca Attanasio perché ho studiato sui suoi libri prima di andare in Africa, ringrazio l’Africa  perché mi ha insegnato una grande civiltà, ringrazio l’OSCE perché mi ha obbligato a imparare una nuova lingua: soltanto nella grande difficoltà di trovare ogni giorno una porta chiusa ho imparato a parlare di migrazione senza mai nominarla. Migrazione è un termine così tossico che non riusciamo più a vedere la realtà delle cose al di là della sua facciata, quindi credo che questo sia il mio messaggio che proviene dalla mia storia personale e professionale: sprovincializziamoci, saremo tutti più sereni.

  

 

DIBATTITO

 Alle domande del pubblico che hanno riguardato principalmente i fondi stanziati dallo Stato per favorire l’integrazione e il loro utilizzo, la situazione politica in Africa e in particolare se la mancanza di democrazia  ha conseguenze sulle iniziative umanitarie, i relatori hanno risposto come segue.

 

Teresa Albano

 Occorre precisare che è l’Unione Europea a finanziare i paesi membri per le attività finalizzate a favorire l’integrazione degli immigrati. Piuttosto c’è da chiedersi quanti degli euro ricevuti dai singoli Stati arrivano agli immigrati, cioè come questi fondi vengono utilizzati.

Nell’ambito del programma FAMI (Fondo per l’Asilo, la Migrazione e l’Integrazione) l’Unione Europea assegna all’Italia una cospicua somma (centinaia di migliaia di euro) il cui 80% va agli italiani che lavorano nel settore delle migrazioni, e il 20%, nella migliore delle ipotesi, va all’immigrato. Ma la vera questione è la mancanza di trasparenza sull’utilizzo di questi soldi. Quanti ne arrivano agli africani in Africa e quanti agli africani in Italia? Come lo Stato gestisce questi soldi, come stabilisce le priorità, come verifica che siano effettivamente utilizzati per l’obiettivo prefissato? Chi ci guadagna a fare in modo che ci siano in Italia schiavi pronti a tutto per la sopravvivenza?

Probabilmente la risposta a quest’ultima domanda spiegherebbe anche il motivo per il quale queste informazioni non ci vengono date.

 

Luca Attanasio

 

La premessa è che per integrare veramente i migranti sarebbe opportuno evitargli il “viaggio della morte”: è difficile integrare persone che passano quattro anni nelle mani dei trafficanti.  Oggi il terzo settore interviene e lavora molto bene. Anche se ci sono stati degli scandali clamorosi come il CARA di Mineo, ci sono progetti molto interessanti come lo SPRAR, che ha cambiato nome più volte, che prevede l’accoglienza diffusa nel territorio da parte di piccole comunità: è molto più complicata l’integrazione se si mettono insieme duemila migranti appena arrivati dopo viaggi drammatici, di cento etnie diverse, alcuni di paesi le cui etnie sono in guerra.

Il primo passo da fare è quindi ragionare sugli ingressi e chiudere definitivamente le tratte gestite dai trafficanti, anche perché i trafficanti sono in contatto con i peggiori terroristi come Al-Qaida e BoKo Haram, ed hanno un fatturato  medio annuo superiore a quello del traffico della droga e delle armi.

Per quanto riguarda l’utilizzo dei fondi stanziati dall’Europa per la gestione delle migrazioni non dimentichiamo i milioni di euro che sono stati utilizzati per finanziare la Guardia Costiera libica  che ricaccia indietro le persone intercettate in mare aperto e i 6 miliardi di euro dati a Erdogan per fermare i migranti che fuggono dalla Siria e i curdi che fuggono dalla Turchia.

La Tunisia è uno dei paesi che ha portato avanti la “primavera araba”. Capoverde, Zambia sono esempi di democrazia e alternanza politica, il Ruanda dopo 28 anni dal genocidio con un milione di morti in pochi mesi, è diventato una delle economie più trainanti nel mondo, c’è benessere, reddito molto alto, quasi a livello europeo.

Teniamo comunque presente che la decolonizzazione dell’Africa è iniziata 60 anni fa, l’ultimo paese è stato il Mozambico nel 1975, e dopo essere stati colonizzati per secoli non si può pretendere che in breve tempo diventino perfettamente democratici. Oltretutto in molti paesi lo sfruttamento sta continuando (vedi cobalto in Togo) e infine dove c’è un corrotto c’è anche un corruttore.

 

 

Card. Franco Montenegro

L’accordo con la Libia: a firmarlo è venuto in Italia il capomafia libico, il nostro Governo ha detto di non essere a conoscenza della sua presenza ma è stato smentito dall’ONU. Poi il capomafia è diventato il capo della Guardia Costiera ed è lui a decidere la vita della gente, lui che è anche il capo dei trafficanti e della prostituzione.

L’Italia, con i soldi per la “Gestione delle migrazioni” ha esternalizzato i suoi confini per cui per i migranti il nostro confine è in Libia e l’Italia è responsabile della morte e del traffico di questa gente.

Si prova a incolpare le ONG, ma le persone che portano in salvo sono una minima parte rispetto a quelle che arrivano con i barconi dei trafficanti, a quelle che vengono intercettate dalla Guardia Costiera libica e riportate nei Centri di detenzione e a quelle che muoiono in mare.

Inoltre la prassi è che quando la Guardia Costiera libica intercetta un barcone debba affondarlo o renderlo inutilizzabile: la scorsa settimana un barcone preso dalla Guardia Costiera libica e riportato indietro,  dopo tre giorni è stato fotografato di nuovo in mare pieno di profughi. Questo è un gioco sporco ma non dei libici, è un gioco sporco che facciamo noi perché queste cose le sappiamo, le vediamo, le foraggiamo. E’ un gioco sporco che dimostra l’irresponsabilità dello Stato italiano: è pulito formalmente, in realtà è responsabile della morte di questa gente. Lo Stato italiano non vuole l’integrazione, non c’è giustizia, va avanti con approssimazione.

Se una persona è  considerata un delinquente solo perché viene dalla Nigeria allora io che vengo dalla Sicilia dovrei essere considerato un mafioso, invece per lo Stato italiano io sono Eccellenza, lui è un terrorista: come fa ad essere terrorista quella mamma che muore durante un naufragio a Lampedusa con la sua bambina sulla pancia ancora con il cordone ombelicale?

E’ una cosa terribile trovarsi in un hangar con 386 bare: tutti sono terroristi? tutta gente cattiva? Molti di loro erano cristiani e sono morti con una medaglietta o un crocifisso in bocca, facendosi la Comunione. Ho passato giornate al molo a ricevere salme e i sommozzatori mi hanno detto che nei barconi affondati hanno trovato cadaveri che sono morti in ginocchio e a mani giunte: questi sono i terroristi da cui ci dobbiamo guardare?

Sono fratelli che potrebbero sedersi attorno allo stesso altare e mangiare lo stesso pane, però abbiamo deciso che sono diversi da noi. Nel 2015 sono stato ospite del Presidente del Consiglio Europeo, discorrendo ho chiesto come mai l’Europa non riesce a organizzare un gestione dignitosa delle migrazioni, mi ha risposto che ci vorranno anni per trovare un accordo tra i 28 Stati, l’Europa ha messo al centro la finanza, non l’uomo. E’ una storia strana e l’Italia che si lamenta di questa gente che arriva è ancora in attivo grazie alla voce del bilancio relativa ai migranti: con i contributi versati dagli stranieri vengono mantenuti 640.000 pensionati italiani, ci sono 30.000 aule scolastiche aperte grazie ai figli degli immigrati, altrimenti ci sarebbero 60.000 insegnanti disoccupati.

La verità non viene mai detta. Se in Africa ci sono Governi immorali da chi vengono sostenuti? Alle spalle ci sono sempre i nostri Governi che non hanno alcun interesse a rimettere in sesto l’Africa.

Nel 2050 ci saranno 7 ai 10 milioni di italiani in meno: saremo noi a chiedere agli africani di venire.