"IL PERDONO PRATICA DELL'AMORE"

 Il tema del “perdono” è stato l'oggetto del ritiro del Se.A.Mi. tenutosi nel 2005 a L'Aquila , città con il privilegio di essere depositaria di uno dei primi Giubilei della storia.

Le letture riportate di seguito  riguardano il significato della “Bolla del perdono” di Papa Celestino V, l'importanza del perdono per la giustizia, e alcuni pensieri di Giovanni Paolo II, Arturo Paoli e Don Vitaliano sul perdono.                                                                                                                                                                                                  

La “Perdonanza” di L'Aquila è importantissima per la sua storia e per le sue modalità, ma non possiamo non dire una parola sulla “Perdonanza” o “Indulgenza del Perdono” concessa dal Papa Onorio III a S. Francesco d'Assisi, in seguito a una sua precisa richiesta dopo una visione notturna del Santo dentro la chiesetta della Porziuncola in Santa Maria degli Angeli – Assisi, mentre correva l'anno del Signore 1216.

Il Diploma di Teobaldo o “Canone Teobaldino”, è il principale documento storico relativo alla concessione di tale indulgenza.  Tale documento fu redatto dal frate minore e vescovo di Assisi Teobaldo, ed emanato dalla curia vescovile di Assisi  il 10 agosto 1310.  Si tratta di un'indulgenza senza “obolo”, quindi disponibile gratuitamente a tutte le categorie di persone, alla sola condizione di avere il pentimento dei propri peccati e il desiderio della conversione.

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 LA  PERDONANZA 

La sera stessa dell’incoronazione, il 29 agosto 1294, Celestino V concede un’indulgenza plenaria annuale a tutti coloro che, sinceramente pentiti e confessati, si fossero recati a L'Aquila nella chiesa di S. Maria di Collemaggio nel giorno di S. Giovanni Battista:

“……annualmente assolviamo da ogni colpa e pena, per tutti i peccati commessi sin dal battesimo a quanti veramente pentiti e confessati saranno entrati nella predetta chiesa dai vespri della vigilia fino a quelli immediatamente successivi alle festività stesse” (traduzione della bolla di papa Celestino V).

 

Tale evento ha una portata grandiosa se si considera che la Chiesa si era servita fino allora delle indulgenze per indurre la gente a realizzare i suoi programmi, come partecipare alle crociate, fornire denaro per la costruzione di chiese o combattere l’eresia. Unico precedente era costituito dal perdono di Assisi ottenuto da S. Francesco per i visitatori della Porziuncola il 2 agosto e concesso da Onorio III.

Inoltre le indulgenze solevano cancellare la pena temporale, non il peccato né la colpa: è evidente che papa Celestino V vuole privilegiare S. Maria di Collemaggio e L’Aquila.

Celestino pensa bene di conferire l’indulgenza a tutti i fedeli di Cristo, non solo ai privilegiati sociali o che tali divenivano perché si dedicavano a imprese al servizio della Chiesa, ma a chiunque, ricco e povero, si recasse a Collemaggio con una condizione interiore idonea per meritare la benevolenza divina.

In un’epoca in cui il popolo non ha diritti, Celestino afferma il diritto di ogni fedele di Cristo, rimesso alla libera determinazione dello stesso.

E’ un messaggio universale, che costituisce un avvenimento nuovo e straordinario, rivoluzionario nella società medioevale in quanto disgregatore del potere assoluto: Celestino trasforma chiunque in un soggetto di diritto, in un cittadino che, di propria iniziativa, può usufruire dell’indulgenza.

Si comprende così la preoccupazione di Bonifacio VIII, tutore del potere assoluto della Chiesa, allorchè tentò in ogni maniera di cancellare il beneficio concesso da Celestino.

Inoltre, non avendo usato la formula “pentiti e comunicati”, non è escluso che il Papa abbia voluto soddisfare la spiritualità popolare che non passa per Roma, concedendo ai fedeli non solo l’iniziativa di recarsi a Collemaggio, ma anche di determinare le condizioni interiori – pentimento e confessione come fatti dell’anima – per conseguire il perdono in totale autonomia, senza l’intercessione di altri.

Il fedele diventa protagonista nel suo cammino religioso.

La Bolla della Perdonanza è stata subito affidata alle autorità comunali, e il Vescovo diL’Aquila non aveva autorità sulla celebrazione annuale, infatti negli antichi statuti cittadini veniva stabilito che le autorità comunali invitassero ogni anno il Vescovo e il clero ad intervenire alla festa.

Tutto il mondo parla del Giubileo, ma difficilmente si sente parlare dell’indulgenza plenaria, che ne costituisce l’essenza, né del papa Celestino V e della Perdonanza da lui concessa, benchè abbia preceduto il primo anno Santo, quello del 1300. Se confrontiamo il privilegio della Perdonanza con la bolla del Giubileo di Bonifacio VIII si può osservare come quest’ultima non è un dono spontaneo, ma la soddisfazione della volontà dei fedeli che sollecitavano il papa.

 

 Il perdono è la parola chiave e l’essenza del messaggio celestiniano e costituisce l’unica soluzione di qualsiasi conflitto interiore ed esteriore.

La grandezza dell’atto profetico contenuto nella Perdonanza non può essere cancellata.

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GIUSTIZIA  E  PERDONO 

I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono. Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni per la pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante le difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia … La vera pace è frutto della giustizia … ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in un certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati.

 Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell’ordine leso.

Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell’ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali.”

Dal messaggio di Giovanni Paolo II, che in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù del 2002 introduce la questione della giustizia e del perdono, prendiamo lo spunto per riflettere sul peccato del nostro tempo che è l’Africa.

Ieri,  impoverita economicamente, politicamente e culturalmente dal colonialismo che l’ha  privata dei mezzi per la sopravvivenza le cui espressioni più crudeli sono state la tratta degli schiavi, venduti come merci per il profitto dei colonizzatori, il danno all’ambiente, il saccheggio di ogni genere di risorsa.

Oggi, vittima della globalizzazione che agisce sotto altre forme: la deportazione per prostituirsi, il turismo sessuale, il commercio di minori, l’arruolamento forzato dei bambini, lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo a vantaggio di pochi. Di diverso c’è che una piccolissima parte di ciò che si sottrae viene restituita sotto forma di aiuto.

Ma il popolo africano non vuole aiuto, vuole giustizia.

Vuole riparazione, restituzione di ciò che è stato rubato.

Le suore missionarie, i tanti volontari che condividono le sofferenze della popolazione africana, forse anche noi del Seami abbiamo il loro perdono. Ma questo, come sottolinea Giovanni Paolo II non deve essere inteso come dimenticanza delle colpe della nostra società e motivo per “soprassedere alle legittime esigenze di riparazione”.

Il perdono del popolo africano deve portarci ad assumere un doppio impegno:

·       perdonare perché si è stati perdonati: la gratuità che sorge dal perdono e l’esperienza dell’essere amato non può non essere estesa             

·       costruire la giustizia, lottare perché non ci sia lo sfruttamento dei lavoratori del sud, impegnarsi perché sugli egoismi prevalga il bene comune.

 

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A chi chiedere perdono?  Chi deve chiedere perdono?

Arturo Paoli:

"Noi come società occidentale, persone cristiane, anche se abbiamo la coscienza di non aver offeso alcuno, né di avere contratto dei debiti, dobbiamo rinnovare l’atteggiamento di Gesù. Lui solo poteva dire di essere giusto, di non essere assolutamente responsabile della violenza. Eppure si è fatto peccato, cioè ha assunto il male, senza divenire malvagio. Per far capire che cosa vuol dire amore di Dio, Cristo è entrato nell’ingiustizia convertendola in grazia sulla croce. Non si può testimoniare l’amore del Padre se non dentro i conflitti innescati dal peccato. Lo so: esistono altre forme di solidarietà, quali l’elemosina e la beneficenza; ma solo superficiali e inadeguate.

Qualche uomo di chiesa che “si è fatto peccato” per vincere il peccato?

Il mio pensiero va ai vescovi Romero e in El Salvador e Girardi in Guatemala, entrambi martiri. Ma ci sono state migliaia di persone che, in questi anni, hanno dato la vita trasformando il peccato in grazia, ripetendo quanto è avvenuto sul calvario. Questo non è stato un sacrificio per pagare un debito; è stata la trasformazione del delitto in qualche teologo del passato affermava – per pagare un debito: è stata la trasformazione del delitto in atto di amore, di offerta di sé".

 

Quale colpa dobbiamo farci perdonare?

Giovanni Paolo II:

 "La società occidentale ha creato le strutture di peccato, sono le strutture economiche (sfruttamento, risorse, persone), politiche (connivenza con dittature), culturali (“strutture mentali”: razzismo, pregiudizio…).

 Nella enciclica Centesimus Annus del 1991 Giovanni Paolo II usa per la prima volta in un documento pontificio questo termine, e afferma che distruggerle e sostituirle con forme più autentiche di vita è un compito che richiede coraggio e pazienza. Le strutture di peccato promuovono e sostengono comportamenti sociali immorali. Schiavitù, apartheid e tutte le forme di discriminazione sono strutture di peccato, che degradano la persona umana, così come mafia, camorra e le organizzazioni che promuovono la prostituzione.

Il Catechismo della chiesa mette in rilievo la connessione fra peccato personale e strutture di peccato al n. 1869:  <<Le “strutture di peccato” sono espressione ed effetto dei peccati personali. Inducono le loro vittime a commettere, a loro volta, il male. In un senso analogico esse costituiscono un “peccato sociale”>>.

E’ tuttavia un fatto incontrovertibile che l’interdipendenza dei sistemi sociali, economici e politici, crea nel mondo di oggi molteplici strutture di peccato. Esiste una spaventosa forza di attrazione del male da far giudicare "normali"e "inevitabili" molti atteggiamenti. Il male si accresce e preme con effetti devastanti sulle coscienze, che rimangono disorientate e non sono neppure in grado di discernere. Se si pensa poi alle strutture di peccato che frenano lo sviluppo dei popoli più svantaggiati sotto il profilo economico e politico, verrebbe quasi ad arrendersi di fronte ad un male morale che sembra ineluttabile. Tante persone avvertono l’impotenza e lo smarrimento di fronte a una situazione schiacciante che appare senza via d’uscita. Ma l’annuncio della vittoria di Cristo sul male ci dà la certezza che anche le strutture più consolidate dal male possono essere vinte e sostituite da “strutture di bene”.

 

Don Vitaliano:

"Le colpe di chi crea strutture di peccato di chi pensa che nulla possa cambiare e perde la speranza.

Sempre Giovanni Paolo II ha scritto: <<la Chiesa, quando parla di situazioni di peccato denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni o gruppi di Nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l’accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali. Si tratta di personalissimi peccati di chi genera o favorisce l’iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone>>. Se gravano sui singoli, cioè su tutti quanti noi, le responsabilità dell’attuale stato di cose, allora è anche vero che sta nelle nostre mani, nelle mani della gente comune la possibilità di intraprendere un’azione costruttiva e controcorrente".

 

Quali sono le conseguenze di tale riconciliazione?

 Giovanni Paolo II:     

"Denunciano e demoliamo, quando ci riusciamo, le strutture di peccato. E’ un dovere cristiano. Ma anche, contemporaneamente, costruiamo. C’è un mondo intero di strutture di grazia da costruire secondo i desideri dello Spirito.

La personale conversione del cuore e il lavoro per abbattere le strutture di peccato e costruire le “strutture di grazia” devono andare insieme. Per i cristiani, come tutti per coloro che riconoscono il preciso significato teologico della parola <<peccato>>, il cambiamento di condotta o di mentalità o nel modo di essere si chiama, con linguaggio biblico, <<conversione>>. Questa conversione indica specificamente relazione a Dio, alla colpa commessa, alle sue conseguenze e, pertanto, al prossimo, individuo o comunità. E’ Dio, nelle <<cui mani sono i cuori dei potenti>>, e quelli di tutti, che può, secondo la sua stessa promessa, trasformare ad opera del suo Spirito i <<cuori di pietra>> in <<cuori di carne>>. Nel cammino della desiderata conversione verso il superamento degli ostacoli morali per lo sviluppo, si può segnalare, come valore positivo e morale, la crescente consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni. Il fatto che uomini e donne, in varie parti del mondo, sentano come proprie le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani commesse in Paesi lontani, che forse non visiteranno mai, è un segno ulteriore di una realtà trasformata in coscienza, acquistando così connotazione morale".